È scoppiata, in questi giorni, la polemica per la riesumazione della salma di Padre Pio a San Giovanni Rotondo: un rito che può sembrare ad alcuni «macabro» e «necrofilo». Ciò che invece bisogna sapere della tradizione cristiana. Il concetto della Chiesa come «comunione dei santi», e la visione della morte, vinta da Cristo risorto. La pratica devozionale è stata oggi rievocata sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” dal medievista Franco Cardini, il quale ha ribadito la piena legittimità dell’esumazione dei santi nella secolare tradizione della Chiesa.
Sacro corpo
Il culto dei santi nella cristianità. Perché non dobbiamo scandalizzarci di fronte a devozioni funeree
di FRANCO CARDINI
Come al solito, le polemiche nascono dall’ignoranza. Ignoranza – nessuno se ne adonti – nel senso etimologico e tecnico della parola: molti s’indignano, si scandalizzano, gridano all’orrore e al raccapriccio, semplicemente perché non sanno certe cose, non conoscono la storia, hanno anche a lungo vissuto senza porsi un sacco di problemi sui quali avrebbero ben dovuto interrogarsi.
Il cristianesimo pare a molti una religione banale: ci sono cresciuti più o meno dentro, o ai margini, o al di fuori ma tenendolo comunque d’occhio e considerandolo una cosa familiare: a Natale si fa il presepe, a Pasqua ci sono l’uovo e la colomba, battezzare i bambini in chiesa è bello e commovente, sposarsi davanti al prete è più solenne che non davanti al sindaco e via discorrendo.
Ma il cristianesimo, vissuto sul serio, è una fede dura e assurda: il cristiano ha l’obbligo di credere che un po’ di pane senza lievito e un po’ di vino, se un prete – che magari non è nemmeno una gran brava persona – ci pronunzia una formula sopra, diventano sul serio il Corpo e il Sangue del Cristo; ha l’obbligo di credere che alla fine dei tempi i corpi dei morti risorgeranno; e giù una lunga serie di assurdità.
E qualche cristianuccio che fino ad ora ha sempre creduto in Dio e spesso è andato anche in chiesa, si scandalizza adesso, e si mette a parlare di «macabro» e di «necrofilia », perché la Chiesa riesuma un cadavere? Ma siete vissuti sulla luna, fino ad ora?
Il cristianesimo, sta scritto, è «scandalo per i giudei, follia per i gentili». E difatti ebrei e pagani, per motivi differenti ma in concordia, aborrivano (e aborrono) perfino la vista dei cadaveri, considerata contaminante. Nel mondo antico greco e romano le «necropoli», le «città dei morti», stavano fuori di quelle dei vivi e rigorosamente separate da esse; e gli imperatori romani proibivano severamente la mutilazione e la parcellizzazione dei cadaveri, sia perché temevano che in qualche caso parti del corpo ad esempio di un oppositore politico dell’impero avrebbero potuto servire come reliquia per attivare un suo culto politico, sia perché spesso parti di corpo umano venivano asportate e usate per rituali magici.
Ma il Cristo, morendo e risorgendo, ha vanificato la morte. Non v’è più motivo di temere i cadaveri o di averne orrore: essi sono candidati alla resurrezione.
D’altronde, il cristianesimo è fondato sul sangue dei «martiri», cioè dei testimoni: sia di Gesù, Martire per eccellenza, sia di quanti lo hanno seguito e hanno dato la vita per lui. Fino dal I-II secolo dopo Cristo invalse fra i cristiani l’uso di raccogliere brandelli di abito e anche gocce di sangue di un martire e di conservarle a scopo di culto. Poiché la Chiesa è fondata sulla «comunione dei Santi», cioè sul rapporto intimo e profondo tra il Dio-Uomo e tutti quelli che sono nella Grazia, tutti sono viventi: e difatti non esistono «necropoli», città dei morti, bensì «cimiteri», parola greca che significa «dormitori», dove i fedeli dormono in attesa del risveglio.
Comunque, la reliquia – specie quelle costituite da parte di un corpo fisico – è una rottura rivoluzionaria sia con la tradizione ellenistico-romana sia con quella ebraica, che per motivi diversi tra loro prescrivevano comunque entrambe la rigorosa separazione tra i morti e i vivi e avrebbero ritenuto illecite e contaminanti sia la separazione d’una parte d’un cadavere dal resto del corpo di un defunto sia la sua conservazione.
Tuttavia anche nella Chiesa primitiva esistevano resistenze a tale pratica. Fu solo a partire dall’VIII che si diffuse la pratica della frammentazione dei corpi dei santi e del loro trasferimento dal primitivo luogo di sepoltura a un altro, la «translatio»; inoltre si preferiva ricorrere di solito, per distribuirle ai fedeli, alle cosiddette «reliquie per contatto», cioè a oggetti (di solito «brandia», frammenti di tessuto) che si depositavano qualche istante sulla tomba del santo come a permetter loro di «assorbirne » il potere taumaturgico.
Molti venerabili uomini di Chiesa attaccarono autorevolmente sia gli abusi cultuali, sia le superstizioni legate alle reliquie: così Claudio di Torino nel IX secolo, così soprattutto Guiberto, abate benedettino del monastero di Nogent fra XI e XII secolo, il cui trattato De pignori bus sanctorum – una requisitoria implacabile contro le falsificazioni e le superstizioni – fu poi scopiazzato nei secoli successivi da tutti i detrattori anticattolici del culto delle reliquie (da Giovanni Calvino al Voltaire), i quali però si guardarono bene dal citarlo.
Le reliquie principali dei santi erano e restano il loro corpo, o parti di esso: la pratica cristiana ha difatti consentito, per esigenze di culto, lo smembramento dei corpi dei santi. Si tratta comunque di una pratica che la Chiesa moderna tende a lasciar da canto: le reliquie dei santi sono oggi, soprattutto, parti del loro abito oppure oggetti ad essi appartenuti.
Il culto delle reliquie fu comunque, insieme con la vendita venale delle indulgenze, uno degli «scandali» contro i quali si scagliarono tra Medioevo ed Età moderna tutti i fautori delle riforme ecclesiali: fino alla Riforma protestante vera e propria e alla Controriforma, che ribadì la legittimità del culto ma accolse le giuste critiche ai suoi abusi e avviò una vera e propria caccia alle false reliquie che ancora fossero venerate nelle chiese. Naturalmente, ciò non toglie che molti falsi sfuggissero alle indagini, anche alle più accurate.
Oggi, la Chiesa può usufruire dei medesimi strumenti messi a disposizione della ricerca storica per correttamente datare un oggetto: le indagini mediante l’uso del C14, l’isotopo radioattivo del carbonio, del DNA e così via. Gli studi relativi alla «Santa Sindone» di Torino, ad esempio, sia pur caratterizzati da una problematica particolarmente complessa, hanno dimostrato quanto grandi servigi la scienza possa rendere al culto.
Va da sé che comunque da una parte la fede nelle reliquie non fa parte di alcun dogma, dall’altra che in qualche caso di sia pur dubbia autenticità la Chiesa può autorizzare il mantenimento – magari provvisorio, in attesa di raggiunte certezze – di un culto locale per rispetto alla tradizione e alla devozione dei fedeli.
Lo stato d’integrità di un corpo fisico, anche molto tempo dopo il decesso, è considerato un segno di santità, che si appura appunto attraverso la «ricognizione » dei resti, oggi espedita con i mezzi e gli strumenti che la scienza moderna pone a nostra disposizione. Naturalmente, l’integrità di un corpo dopo la morte non è, di per sé, ritenuta prova sufficiente di santità; né, al contrario, un corpo che abbia subìto il fisiologico processo di dissoluzione è perciò stesso ritenuto come appartenente a una persona che non ha raggiunto il livello della santità.
La Chiesa si muove in questi frangenti con estrema prudenza, come abbiamo visto nella recentissima ricognizione dei resti mortali di san Pio da Pietrelcina. La ricognizione continua ad essere un momento importante, prima della translazione del corpo di un santo da una sede all’altra. La Chiesa ha agito, anche in questo caso, in maniera del tutto conforme alla tradizione.
L’articolo di Franco Cardini è tratto da “La Gazzetta del mezzogiorno” Pagina Cultura & Spettacoli, del 9 Marzo 2008.