L’epoca della sua fondazione si perde, come tante cose, nel buio dei tempi, e sbaglia chi vuole fissarne esattamente la data al 1535, cioè all’epoca in cui il vicerè di Napoli, Don Pietro di Toledo, per difendere la regione dalle scorrerie dei Turchi, fece costruire e rafforzare castelli e torri lungo tutta la costa garganica ed anche oltre. Il Giannone e il Troyli, nell’enumerare le costruzioni fatte erigere dal vicerè di Napoli, non parlano del Castello di Rodi: segno che esso risale ad epoca assai anteriore. Quel che è certo è che, attraverso i secoli, furono sovrapposte mura su mura e le vecchie costruzioni servirono di base alle nuove opere difensive richieste dalle circostanze.
Nel 1789, mentre si fabbricava il palazzo di Giuseppe Rossi, presso le mura, furono trovati i ruderi di altre mura sepolte e le tracce di un camminamento sotterraneo. Nel 1825, nella costruzione della Piazza, furono trovate sotto il suolo altre mura ed un forno. È certo che a Rodi esisteva, fin dai più antichi tempi, un porto celebre, difeso da muraglie e da fortezze. Era questo il porto chiamato Portus Garnae che Plinio ricorda parlando dei luoghi della Daunia (Zib. III – cap. XI)? In tempi recenti, viene ricordato da Vincenzo Fraccareta nella sua Storia di Viesti, da Matteo Fraccareta nel Teatro della Capitanata, da Michelangelo Manicone nella Fisica Appula, da Giacomo Maineri nel Portolano del Mare Adriatico, dal Cellario e da altri. Ruderi massicci di mura si vedono tuttora nel mare di Rodi. È visibile a tutti, sotto il Castello, una botola o camminamento il quale, dal mare, sale nell’ampio Castello. E i nostri padri ricordano, presso la botola, delle stanze sulle quali un architrave aveva incisa la parola Tabularium, voce che, secondo i Muratori, significava luogo o persona da servire, all’epoca dei Romani, alla misurazione dei cereali, ecc. Tabularium significa anche “registro” ed “archivio”. Tabulario era chiamato, per esempio, il registro delle messe che una volta veniva esposto nelle sagrestie per ordine del Vescovo. Nel monastero di Serracapriola esisteva il Tabulario di tutti i Conventi della Provincia. Regio Tabulario, ad esempio, fu l’ingegnere Antonio Guidotti che era al servizio di Casa Brancia. Il Tabulario di Schioppa felice, nel 1775, l’estinzione degli usi civici nel bosco feudale di Peschici per la causa demaniale tra l’Università di Peschici e il Principe d’Ischitella. Il Tabulario Tango fece in proposito una relazione nel 1661 in cui, nella Daunia si riportavano le indicazioni numeriche delle greggi oggetto della fida. Il Bertaux vuole originaria di Francia l’arte costruttiva dei castelli garganici e l’Hasclof la vuole originaria di Germania. Ma, dagli ultimi studi fatti, essa si va rivelando invece arte tutta nostra particolare, regionale pugliese, opera di una eletta schiera di protomagistri e magistri regionali dei quali parecchi nomi sono giunti fino a noi, e ricordiamo Bartolomeo da Foggia, nato nel 1223, alla cui scuola appartennero, nei secoli XIII e XIV, Niccolò, Riccardo, Gualtiero, Paolo.
(Questa illustrazione fu ricavata da una piccola fotografia trovata tra le carte del cav. Giuseppe Sacco. Il disegno è stato fatto dal nipote Antonio. Le teste di guerriero che si vedono sulla porta giacquero a terra a lungo e furono trastullo di ragazzi. Il Sacerdote Michelantonio Fini racconta che una di esse un giorno sparì all’improvviso, donata probabilmente dal Sindaco a un Capitano del Regio Esercito, venuto a Rodi per la requisizione di animali).
Il castello di Rodi Garganico si ergeva maestoso nel luogo omonimo dove si erge ancora il Palazzo dei Caracciolo, oggi famiglia Carnevale. Magnifico l’orizzonte del castello col panorama dell’Adriatico, delle Isole Tremiti, del Lago Varano, dei monti degli Abruzzi, della punta di Peschici, della campagna tutta verdeggiante di pinete e di agrumeti, trapuntata, come un verde velluto, di case, di ville, di eremitaggi, di chiese.
Il Castello di Rodi vide le navi diomedee, le navi romane, le navi turche, le navi veneziane, le navi austriache ed udì il frastuono delle armi greche, longobarde, normanne, angioine, aragonesi, borboniche, garibaldine. Vide papi e re, principi e cavalieri in esilio e a diporto. Vide santi ed eroi, pellegrini e soldati. Vide Francesco d’Assisi. Vide, nel 1295, papa Celestino V imbarcarsi alla volta della Dalmazia [in realtà per la Grecia ndr] per sfuggire alle persecuzioni di Bonifacio VIII e di Carlo III: il mare era in tempesta, e il santo Pontefice dovette forse stare chiuso parecchi giorni nel Convento di Rodi per aspettare il tempo favorevole [altri dicono Vieste, dopo essersi imbarcato a Rodi ndr]. Vide Gioacchino Murat, perseguitato anche lui, chiedere a Rodi l’ospitalità salvatrice.
Il Castello di Rodi resistette ai Turchi molte volte, ed è celebre la difesa sostenuta nel 1678. Resistette agli Inglesi nel 1809. Conobbe le dominazioni di Ferdinando d’Aragona, dei Carafa, dei Caracciolo, dei Sanfelice, degli Spinelli, dei Brancia, dei Farnesi, dei Capece, dei Cavaniglia della quale famiglia troviamo in Rodi ancora degli eredi. Possedeva anche una ricca biblioteca e un frantoio. Stemmi e marmi sono quà e là dispersi, gettati a terra od attaccati su qualche muro. Sono in piedi superbamente le Torri dette ora Carnevale o Caracciolo e Vitale. Nella Taverna di Piazza Margherita e nel Portone De Felice del Corso Giannone si trovano gli abbeveratoi colossali di macigno che furono un giorno del Castello. In passato aveva un profondo fosso all’ingresso, verso l’attuale mercato, dove s’innalzava una ciclopica torre detta “la torre maestra”. Quando, parecchi anni or sono, per costruire la Piazza, fu necessario demolire la torre maestra, colui che dirigeva i lavori, Antonio Inglese, scoprì nel sottosuolo un sotterraneo e delle monete di rame, spedite poi a un museo di Napoli. Il castello terminava, e termina, con lo Spuntone o Sperone, attraverso il quale si vedono fabbriche maestose, camminamenti tortuosi, mura gigantesche e parla tra i ruderi la voce del mondo che fu. Nella taverna Arciulli e nella stalla di Michele d’Anelli, al Largo Madonna, si trovano due grosse pile d’acqua del castello, due massi di pietra solide incavati, di forma quadra: hanno sul davanti uno stemma logorato più dalla negligenza che dal tempo. Il Generale Pinelli, nel 1860, trovò nel castello anche dei cannoni di ferro che portò via con sé; si vede ancora una buca, verso il mare, che dalle mura menava al castello.
Sulla porta principale del Castello, che noi riproduciamo per gli amatori di Storia e di Arte, e per la gloria dei nostri nipoti, vi era una lapide con la seguente iscrizione:
Ne servus ignoret haeres…
Majurum Literis, Majorum armis
Hanc Domun stare
Instaurato propugnacolo
Erecta Biblioteca, Armentario Instructo,
Literas, atque arma,
In limine, ut pateant:
In marmore ut perennent,
Incidi iussit
Hieronymus Onerus Cavaniglia
Marchio S. Marci an. Sal.
MDCLXXXIX.
(Perché il tardo successore di grandi letterati e di guerrieri non ignorasse l’esistenza di questa casa, restaurata la rocca, fondata la biblioteca, armato l’arsenale, Girolamo Onero Cavaniglia, Marchese di S. Marco, comandò che si incidessero iscrizioni e armi sull’ingresso [della casa] perché fossero manifeste, e sul marmo perché durassero perennemente. Anno 1689.
Questa lapide si trovava sulla porta principale del castello e fu in seguito rinvenuta, quasi fosse un rifiuto, dietro la chiesa della Madonna della Libera).
Si possono scrivere tante belle cose sul Castello, ma non possiamo nascondercene una che non ci fa certo onore: la distruzione di questa fortezza che, se conservata com’era in origine, avrebbe regalato a Rodi Garganico un fascino straordinario. La realtà è che, a differenza di molti altri castelli, sparsi per la penisola e rimasti in piedi, o semi diroccati, quello di Rodi è stato fagocitato, più dall’ingordigia dei signori locali che dagli attacchi del tempo e da quelli di nemici. Così si espresse a tal proposito il rodiano Sacerdote Michelantonio Fini: “I vandali del mio paese nulla hanno saputo conservare, tutto hanno sacrilegamente abbattuto e inconsciamente disperso e di tante memorie del passato non ci resta oggi che una lapide di marmo bianca gettata a terra da anni ed anni dietro la chiesa della Madonna della Libera, presso la stalla dell’eremita!” (Michelantonio Fini – Appunti di storia e folklore rodiano, p. 68).
Adattato da uno scritto del Sacerdote Michelantonio Fini, anno 1915.
A cura di Franco Miglionico
Non mi stancherò di lodarti, Franco (anchye se molte cose non si capiscono, perché solamente dette e non mostrate). ovvio che è comunque sufficiente per accendere la voglia di chi desidera saperne di più. Ciao
Ciao, grazie. Questa volta il mio merito è quello d’aver scavato a fondo alla ricerca di notizie che altri ci hanno tramandato. Comunque sia, riportare alla luce queste informazioni è senza dubbio utile e, mi auguro, che quelli che le leggono possano guardare con occhi diversi, non più frettolosamente o superficialmente, le memorie di Rodi. Io stesso ho fatto una scoperta, quella che vi sono stati pensatori, scrittori e storici, ma anche molta altra gente che ha amato questa terra, che l’ha descritta meravigliosamente per i loro contemporanei per le generazioni successive. Sono grato a questi uomini che ci hanno passato questo, sia pur modesto, testimone di conoscenza. Possiamo perdere monumenti, castelli e tante altre cose tangibili, ma non possiamo permettere che vada persa anche la *conoscenza*.
squallido ritratto dei rodiani quello del Fini…….
Complimenti per questi articoli….fanno sentire meno lontano dai nostri stupendi posto chi distante lo è!
Franco Miglionico Concordo. Il guaio è sempre che NEMO PROPHETA IN PATRIA (almeno i rodiani, proprio profeti non sono: hanno perso e stanno perdendo molte conoscenze: lo puoi notare anche dal poco: ho chiestop aiuto per spazzare via alcuni dubbi sui lemmi del mio vocabolario, ma nessuno di essi risponde; se non potrò recarmi a Rodi per ricerche dirette sul campo, sarò obbligato a lasciare dei dubbi), Io, devo confidarti, non ho molto amore per la ricerca, ma, soprattutto, al momento, non ho proprio tempo per recuperare quello perduto. Ciao